Il tempo e l’acqua
Nei giorni in cui le strade dell’Emilia Romagna sono sommerse, il suo paesaggio sbriciolato, i suoi fiumi esondati, io lavoro alle ultime modifiche della mia tesi di dottorato che tratta di attivismo, crisi climatica e politica. Non capisco se questa attività mi fa sentire dissociata rispetto a quello che sta succedendo o totalmente a contatto con la realtà esterna.
Mi trovo di nuovo al chiuso, in una casa diversa rispetto a quella in cui ho trascorso i mesi di chiusura di tre primavere fa, ma continuo a sentire gli stessi avvertimenti: uscire è pericoloso, in alcune zone della regione potrebbe essere letale. Così dopo un anno e mezzo trascorso a temere i nostri simili come potenziali portatori di morte — a evitare gli altri con cui co-costruiamo reciprocamente identità, significati, e più in generale motivi per continuare a vivere — ora è l’acqua a fare paura. Acqua che allaga, straripa, impregna, stagna, infetta, ammala. Acqua che s’impasta col fango e si solidifica, una specie di re Mida ma al contrario. In crisi climatica, la pioggia spaventa più del tuono. L’aria più che purificare, avvelena e modifica il corso delle esistenze. Un terzo del nostro habitat in pochi anni risulterà inabitabile. Parte delle terre emerse potrebbero presto diventare sommerse e il futuro del pianeta sembra assomigliare sempre di più a quello di un’Atlantide planetaria.
Per descrivere il mondo del collasso climatico, si ricorre spesso alla mitologia antica e alla fantascienza: non esiste un’epica del Necrocene, non abbiamo neppure le parole per narrare questo controsenso esistenziale. Per orientarci spiritualmente, mentre la nostra specie avanza sull’orlo del burrone dell’estinzione, si attinge a dottrine antichissime o alla poesia — si cercano saperi che siano superiori alla logica del tempo o lontani dalle favole occidentali intrise di ideologia. Quella che abitiamo sembra infatti una realtà inenarrabile. Ma pure quello che ci succede interiormente sembra indicibile, anche se qualcuno prova a dargli un nome. Nel dibattito accademico, ci sono campi di studio come l’ecologia politica e l’environmental humanities che provano a colmare questo vuoto, ma non riescono ad arrivare alla maggior parte delle persone.
Siamo tuttə coinvoltə in un faticoso tentativo di costruzione di senso. Anche i negazionisti climatici lo sono: chi non lo fa per interesse capitalista, reagisce alla paura attraverso l’evitamento. E lo capisco, perché stare a contatto col reale può deprimere, far impazzire di rabbia, trascinare nel buco nero della disperazione.
Io continuo a stare davanti allo schermo, rileggo le parole che ho scelto mesi fa per descrivere il ruolo dellə giovani attivistə per il clima. Piccoli oracoli, profeti tacciati di eresia. Mi risuonano in testa le loro parole, così lucide e ferme. Alcunə di loro adesso vivono senza acqua ed elettricità, qualcunə è forse sfollatə (mentre scrivo, sono trentaseimila le persone in questa condizione). Si sentivano già vittime dell’ingiustizia climatica, ma ora fanno esperienza diretta di un disastro ambientale.
Mentre penso a tutto questo, il mio cellulare comincia a vibrare e ricevo messaggi di persone preoccupate per me. Ne mando alcuni anche io. Sembra un po’ marzo duemilaventi, quando non sapevamo bene cosa fare, ci sentivamo solo atterritə e in pensiero per lə altrə, e provavamo a starci vicinə chiedendoci a vicenda “come stai” e “come stai vivendo questa situazione”. In questi giorni sento di appartenere ad una comunità epistemica che davanti a questi eventi si ritrova, si stringe, sente il peso doloroso dell’avere ragione e non giudica l’emotività altrui.
Purtroppo però questa comunità non è così estesa. A differenza di quanto avvenuto con la pandemia, in questo caso non abbiamo la stessa percezione del problema. Lo spiega bene Paolo Giordano, quando racconta dell’episodio al quale ha assistito in treno. Ho preso un treno anche io, venerdì scorso, e dal finestrino ho visto il Savena che scendeva giù con forza, e cumuli di terra dovuti a frane. Mi ha fatto impressione e mi ha riempito gli occhi di lacrime. Intanto un gruppo di signore che sedevano poco distanti da me parlavano di strade interrotte e inaccessibili, di potenziali smottamenti, ma lo facevano con un tono tutto sommato tranquillo, lo stesso con il quale la voce automatica di Trenitalia annunciava la sospensione del servizio per “disagi causati dal maltempo dei giorni scorsi”. In lontananza, sopra la testa persiste da giorni il ronzìo degli elicotteri. E non smette di piovere.
Mentre sono in viaggio, per automatismo, guardo scorrere il flusso incessante di immagini e informazioni sull’alluvione sui social. Mi sembra che anche davanti a questa tragedia non ci sia spazio per elaborare la perdita: di vite umane e non umane, di case e dei ricordi che contengono, di paesaggi completamente sfigurati. Così le linee di emergenza vengono intasate da volontari mentre ancora si cercano i dispersi, si contano i morti, si rintracciano le persone isolate. Le raccolte fondi e la solidarietà dal basso continuano a fare da toppa ai disinvestimenti strutturali e assenza di una tassazione progressiva effettiva. La classe dominante sa appropriarsi anche della solidarietà più spontanea, la incoraggia non per costruzione di comunità ma perché le conviene. Persino Amazon la incentiva, ma il suo altruismo scompare quando deve pagare le tasse.
I ricchi non possono perdere nemmeno un centesimo. Bisogna fare presto, “riprendere”, “ripartire” con “resilienza” e tornare a investire su fonti fossili, allevamenti intensivi, automobili da corsa, turismo di massa. Il governo ha avuto il coraggio di inserire una semplificazione per la realizzazione dei rigassificatori nel DL alluvioni. Come se la causa non fosse proprio quella. Come se si potesse andare avanti nello stesso modo fino alla prossima prevedibile interruzione, fino alla prossima emergenza. Questo circolo vizioso va interrotto. Dovremmo lavorare ogni giorno per sradicare le cause dei problemi e non per arginarne gli effetti. La politica della cura è quotidiana, è fatta di devozione costante, non di azioni straordinarie e a breve termine. Camus diceva che vivere «è non distogliere lo sguardo dall’assurdo». Eccoci.
Lə miə coentaneə hanno desideri semplici per il futuro: una casa, un lavoro, forse una famiglia. Quarant’anni di politiche neoliberiste hanno rimpicciolito pure i sogni, come dei vestiti messi in lavatrice con il programma sbagliato. Persino costruire qualcosa di minimo sembra richiedere una combinazione introvabile di fortuna, privilegi di partenza, salute mentale e fisica impeccabili, congiunzioni astrali e dedizione totale del tempo della propria vita al lavoro. E nel frattempo arranchiamo a stare in equilibrio su una zattera che continua ad imbarcare acqua. Sembrano le fatiche di Sisifo. Ma noi non siamo ancora morti. E il mondo non è ancora finito.
Dove voglio arrivare con questo discorso non lo so. Ho accumulato questi appunti confusamente e a singhiozzi dal sedici maggio ad oggi e forse un po’ s’intuisce dall’incoerenza dei tempi verbali. Ho scritto per svuotarmi, per scrollare di dosso il clima da odio cortese in cui gli oppressi sono oppressi e tranquilli e gli oppressori tranquilli parlano nei telefoni, e per reagire a all’imperativo del nulla è sicuro ma scrivi che chiude quella poesia struggente di Franco Fortini. Nelle relazioni di potere che osserviamo criticamente ma in cui siamo comunque drammaticamente imbrigliatə, siamo spintə da un desiderio che ci guida e che ci orienta oltre il fango e le macerie, oltre i commissari straordinari e le risatine in conferenza stampa. Il desiderio di non voler più vivere in un sistema cannibale che si nutre di morte, devastazione e passioni tristi. Continuiamo a seguirlo con la forza dellə sopravvissutə e la rabbia dell vittimə. E più impareremo a farlo di frequente, più luce ci sarà.